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Il ruolo del whistleblowing nella società dei dati

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Christopher Wylie, la fonte del caso Cambridge Analytica (Chatham House /Flickr CC/BY 2.0)

L’ultimo decennio ha visto il whistleblowing guadagnarsi un ruolo molto rilevante tra le più importanti dinamiche democratiche del contemporaneo. La parabola di WikiLeaks prima, il caso Snowden, che nel 2013 svelò al mondo la pervasività delle attività di sorveglianza di massa su Internet, e le rivelazioni sulle attività illecite di Cambridge Analytica dello scorso anno, hanno non solo confermato la forza del giornalismo e delle sue fonti, ma hanno soprattutto contribuito in modo decisivo alla comprensione di alcuni equilibri della società digitale di oggi. Al netto delle loro specificità tematiche, i casi Snowden e Cambridge Analytica hanno entrambi fornito elementi imprescindibili per l’analisi degli intrecci tra i campi della tecnologia e della politica in una società dove entrambi rappresentano due tra le più potenti sfere del potere. Esponendo i dettagli del più grande apparato di sorveglianza governativo, e portando alla luce uno dei maggiori casi di abuso dell’economia dei dati, i dibattiti sorti attorno ai due casi hanno fornito elementi precisi a strutturare una discussione che, nata prettamente giornalistica, ha coinvolto anche la politica, le grandi piattaforme tecnologiche e il pubblico. Su un piano più ampio, inoltre, questi due casi hanno anche rappresentato un momento di riflessione sui significati della “datafied society” e sul ruolo stesso dei dati nel rappresentare gli elementi costitutivi di concetti come cittadinanza, diritti, propaganda e, infine, dei dati come colonna portante di quello che la studiosa Shoshana Zuboff ha definito “surveillance capitalism”, un modello economico basato sullo sfruttamento dei dati personali che dalla pubblicità online è diventato il modus operandi di sostanzialmente qualsiasi servizio tecnologico online.

Un aspetto fondamentale è che in entrambi i casi – come già quando WikiLeaks contribuì a riscrivere i concetti di trasparenza e diplomazia nel 2010 – a dare inizio a queste riflessioni, ci siano stati i whistleblower. Il whistleblowing, un termine che in italiano non ha una traduzione efficace in grado di rendere tutte le sfumature del concetto, è una pratica che consiste nel disvelamento di pratiche o fatti illegittimi o illegali perpetuati nel perimetro di azione di un’organizzazione da parte di un membro dell’organizzazione stessa. Questo può avvenire internamente –  presso organi o autorità predisposte – o verso l’esterno, con il coinvolgimento di terze parti, tra le quali i giornalisti e gli organi di stampa rappresentano certamente i casi più interessanti da un punto di vista sociale e informativo. Il fatto che il whistleblowing a mezzo stampa sia una parte minoritaria del fenomeno, e per quanto casi globali come quelli Snowden e Cambridge Analytica rappresentino situazioni più uniche che rare quanto a impatto e portata internazionale, essi rappresentano anche momenti di svolta cruciali: per quanto sia una delle pratiche più comuni per il giornalismo investigativo, il whistleblowing è però di solito una soluzione estrema di risoluzione di uno squilibrio informativo e di potere. Il whistleblowing diventa una necessità qualora altre soluzioni di denuncia meno dirompenti siano precluse o non ricevano possibilità di trovare una “voce” per quanto necessita di essere denunciato. O quando la bilancia tra la segretezza e la necessità di informare il pubblico sia fatta tendere in modo preponderante verso la prima.

Il fatto che alcuni tra i maggiori casi di whistleblowing dell’era modera riguardano la tecnologia e i suoi impatti sociali non stupisce, ma deve preoccupare, in quanto l’incidenza del whistleblowing in questo caso è sintomo di quanto proprio alcuni tra i più importanti assetti democratici e della sfera pubblica siano, di fatto, segreti. Nel suo seminale libro The Black Box Society, lo studioso Frank Pasquale ha coniato la metafora della “black box” per definire i meccanismi di alcune funzioni sociali contemporanee mutuate dalla tecnologia nel contesto del “surveillance capitalism”: nell’ottica di Pasquale, questa immagine spiega la condizione di essere “tracciati sempre più da vicino dalle aziende e dai governi, senza avere alcuna idea chiara di quanto lontano possano viaggiare queste informazioni, come vengano usate, o le loro conseguenze”. Questa asimmetria informativa governa direttamente oggi la sfera pubblica, dove algoritmi sotto il controllo delle grandi piattaforme tecnologiche, come quelli Google o Facebook, gestiscono un numero crescente di operazioni e funzioni democratiche, senza che vi sia una reale possibilità di trasparenza da parte dei cittadini o degli altri stakeholder della sfera pubblica. Il tema sarà ancora più urgente per via della crescente centralità del machine learning e delle funzioni di intelligenza artificiale, per lo più fondate su pratiche di big data analysis, le cui maggiori potenzialità sono inevitabilmente nelle mani delle grandi corporation della rete.

La progressiva privatizzazione della sfera pubblica sembra però andare nella direzione di una frizione sempre più forte tra segreto e trasparenza simile a quella che si è vista nell’ambito pubblico e statale, e non mancano già ora i casi di whistleblower che dall’interno delle grandi aziende della Silicon Valley hanno iniziato a far trapelare dettagli su alcune delle pratiche di queste aziende: nel giugno del 2017, ad esempio, la testata investigativa statunitense ProPublica ha pubblicato un’inchiesta sulle linee guida per la rimozione dei contenuti di Facebook, basata su alcuni documenti interni ottenuti da un insider. Allo stesso modo, anche il Guardian, il mese precedente, aveva pubblicato un’altra indagine, basata su un centinaio di manuali per i moderatori che monitorano i contenuti pubblicati sulla piattaforma, decidendo quali devono essere rimossi. In Italia, invece, Valigia Blu ha ottenuto nel 2017, tramite una fonte anonima impiegata presso un’azienda appaltatrice dei servizi di moderazione di Facebook, alcuni dettagli sulle pratiche di moderazione dei contenuti per il nostro Paese. Lo scorso ottobre, invece, la testata dell’alt-right statunitense Breitbart, ha ottenuto una presentazione interna di Google in cui vengono illustrate le idee dell’azienda di Mountain View sulla censura. A fine 2018, infine, fecero discutere le dichiarazioni di Jack Poulsen, scienziato dimissionario di Google che, parlando con il Times di Londra, dichiarò come la prevenzione dei leak da parte dei dipendenti fosse “la priorità numero uno” dell’azienda. In futuro è estremamente possibile immaginare che le fughe di notizie perpetuate da insider della Silicon Valley possano diventare molto più frequenti. Ovviamente, spetterà alla discrezione e alla professionalità dei giornalisti distinguere il whistleblowing nell’interesse pubblico da casi più controversi di spionaggio industriale.

Già nel 2016 il docente di giornalismo statunitense nonché una delle voci più critiche nei confronti dei poteri delle grandi aziende tech, Dan Gillmor scriveva che per i giornalisti intervenire per favorire il dibattito e la comprensione attorno a queste questioni sarebbe stato fondamentale già nell’immediato futuro: cercare di aprire alcune di queste “black box”, e pingere per avere più trasparenza e accountability è un obiettivo irrinunciabile per un giornalismo che voglia davvero svolgere la sua funzione fondamentale di “watchdog”. Il contributo dei whistleblower, anche in questo, potrebbe essere fondamentale.

Articolo pubblicato originariamente lo scorso 11 marzo su La nostra città futura, magazine online della Fondazione Feltrinelli e riproposto qui per gentile concessione. Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non rispecchiano necessariamente quelle di tutto l’Ejo.

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